Ciao Francè,
meglio scriverti. Ora.
Nonostante avessi voluto farlo nella miriade di occasioni in cui mi hai reso orgoglioso di vederti giocare, di saperti romanista e romano. Schizzi e abbozzi ce ne sono a iosa. Lettere cominciate e piantate lì. Per esaltarti, farti grande al mondo, celebrarti per qualità sportive, umane, calcistiche. Parole e capoversi ne ho a migliaia. Da quella volta che hai esordito a quando hai segnato l’ultimo gol. Dalle visite negli ospedali di mezzo mondo per garantire vicinanza a chiunque ne avesse necessità alla beneficenza spesa nel silenzio di una riservatezza che ho sempre apprezzato e condiviso. Dai record polverizzati a furia di consumare scarpini a quel sogno che custodisco con una miriade di tifosi i quali – come me – quel 10 giallorosso lo vorrebbero impresso nell’eternità di una bacheca che esiste “solo” per noi. E quel “solo” sta messo lì perché è motivo di vanto.
Fra vent’anni, quando smetterai. Ovvio.
Scarabocchi ed espressioni montate su da una passione figlia di istinto e ragione. Perché sei riuscito a farmi dono anche di questo miscuglio specialissimo che ho vissuto poche altre volte, Francè: farti amare di sensazioni venute fuori all’improvviso – come i grandi amori nati col colpo di fulmine; e lasciarti bere tutto d’un fiato anche attraverso un affetto che si è alimentato giorno dopo giorno. Ora dopo ora. Avvenimento su avvenimento. Facile innamorarsi, Francè.
Ma rimanere legati a vita è un casino. A meno che tu non sia un platonico convinto e io – Francè – sono sempre stato uno che per rimanergli dentro al petto te devo toccà. Te devo vedè. Te devo capì. Quante ne ho cominciate: di missive, mail, messaggini incisi pure sugli scontrini del caffè. Ma poi, rimasti incompiuti. Perché bastava un attimo: partivo a scriverti, e finivo a parlarti. Come se fossi lì. A berti una birra. Mangiarti due bocconi. Fare tre passaggi. Scambiare quattro chiacchiere. Passarti cinque carte.
Dicono che accada quando t’impinzi de roba. Ai pazzi. Ai sognatori e agli adulatori.
In tutta sincerità, non c’ho mai provato a capire se fossi parte di uno degli insiemi – come a Trigoria, quando v’allenate. Pettorina verde, pettorina rossa -, se stessi (malauguratamente per me) con un piede in ciascuna categoria o se potesse rientrare – quel comportamento – in un equilibrio mentale di uno sano, vivo e vegeto. Ovvio che nun me ‘n’impinzo, Francè.
E’ che io, come migliaia di altri come me, so’ cresciuto col poster tuo che mi stava di fronte quando dormivo. Ho cominciato a leggere i giornali quotidianamente, grazie a te. Ho iniziato a comprarli e li sventagliavo meccanicamente alle pagine dello sport. Arrivato lì, cercavo solo notizie sulla Roma. Ma se, tra quel pugno di battute, si parlava de te, io ritagliavo e mettevo da parte. Col tempo, con gli anni, l’abitudine di acquistare un quotidiano m’è rimasta e s’è aggiunta anche l’esigenza di sfogliarlo tutto. La politica, la cronaca, l’economia.
M’hai ‘mparato a legge er giornale, Francè. A pijà coscienza der contesto sociale. E tu manco lo sai.
Forse ora è il momento che te lo racconti.