Roma, Montella per Ranieri: lascia un Signor allenatore. Mancherai, eccome

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C’è chi riesce a voltare pagina prima ancora di finire l’ultima riga.
Realisti, cinici, contabili, delusi. Nemmeno il tempo che un’azione abbia il corso regolare e già la reazione s’è palesata in maniera prepotente. Accadde così che il 21 settembre 2009 Luciano Spalletti pareva ricordo sbiadito allorchè aveva rassegnato le dimissioni solo il giorno precedente.
Ho mal digerito quell’addio: i quattro anni del toscano nella capitale si erano sentiti, lasciati vivere, fatti desiderare. Per un gioco che bello ed efficace così non lo si ricordava da parecchio. Per un gruppo che, unito e coeso come gli infissi tenuti insieme col silicone, aveva imparato a essere squadra: non era la migliore delle rose in circolazione – quella giallorossa – ma poteva prendere a pallonate qualunque altro undici titolare. Negli spogliatoi d’Italia quel tipo di legame potevano solo sognarlo perché altrove, a unire, sono state sempre e solo le vittorie. Non in quella Roma, che a conti fatti portò a casa qualche trofeo marginale. Però: sudava uno, sudavano tutti; segnava uno, segnavano tutti; sguardi che erano intese senza bisogno di aprir bocca, parole che nella loro essenzialità sapevano trasmettere significati profondi e articolati, passaggi che parevano carezze rivolte al compagno, vestizioni tra le mura di uno spogliatoio che si trasformavano in atto di appartenenza.
La maglia della Roma. Che lambisce il petto.
Se parecchi mesi dopo qualche sms è bastato per convincere Burdisso e Borriello ad accasarsi nella capitale è anche per la percezione che si aveva altrove della realtà giallorossa.
IL TESTACCINO. Claudio Ranieri, in quel frangente, non poteva che essere la migliore delle soluzioni per sostituire Spalletti. Non solo per i ricorsi di una storia calcistica  e beffarda capace di mettere in stretta relazione – ne è prova il passato più recente – le vicende capitoline e quelle bianconere (Capello fece percorso inverso rispetto a Ranieri, Spalletti si dimise dopo la sconfitta interna della Roma per mano di una Juventus che beneficiò di una delle poche partite spettacolari di quel fantomatico fenomeno che sarebbe dovuto essere Diego) ma anche per la dote che il testaccino portava con sé. Quella di essere romano di nascita con fede romanista da sempre. Un signore dentro e fuori dal rettangolo di gioco, allenatore preparato e uomo tutto d’un pezzo. Lo sport prima del calcio, la lealtà prima della polemica, la capacità di saper perdere importante quanto la ricerca della vittoria. Aveva vinto poco e niente, Ranieri, prima di approdare alla Roma. Qualche coppa nazionale, qualche campionato delle serie minori, qualche scudetto nelle piccole realtà. Quelle in cui se a fine anno conservi la categoria, migliaia di tifosi si riversano nelle piazze. Trent’anni lontano da Roma con un sogno ricorrente: quello di tornare, un giorno, a casa e sedersi sulla panchina della squadra di cui importava, tutte le domeniche, conoscere il risultato.
Il fardello dell’ombra di Spalletti, quel ricordo nitido che faticava a sparire tanto facilmente, ha fatto sì che la fiducia nel nuovo tecnico crescesse piano. Molto piano. Eppure, giornata dopo giornata, partita su partita, quelle maniere signorili e pragmatiche, quel calcio essenziale e minimalista sotto il profilo del gioco è riuscito a imporsi. Conquistare gli scettici, soddisfare i realisti, togliere i paraocchi ai cinici, ritemprare i delusi. Fino alla galoppata conclusasi nella passata stagione con uno scudetto conteso ai nerazzurri all’ultima giornata. Mezzaroma a Siena – scrivemmo in occasione della sfida tra i toscani e l’Inter – e mezza Roma a Verona, dove gli spalti del Bentegodi si fecero poltrona per venticinquemila tifosi ospiti giunti dalla capitale e da diramazioni nordiche che custodiscono in serbo centinaia di tifosi giallorossi. La marea in movimento da Roma a Riscone di Brunico, in occasione del ritiro estivo, non fu che legittima conseguenza di quell’impresa sfiorata. A tal punto bella che qualcuno pensò fosse giusto festeggiare in maniera doverosa anche quel secondo posto (Ranieri, a conti fatti, il tecnico in grado di collezionare più punti). In Inghilterra l’avrebbero fatto, in Italia si respira altra mentalità e ogni proposito svanì: ci fosse stata celebrazione, sarebbero serviti sette, otto Flamini per contenerci tutti. Invece l’unico momento concesso per l’adunata di cuori fedeli fu la presentazione di Adriano. Acquisto dell’estate. Quanto e se Ranieri l’avesse caldeggiato non è dato saperlo ma è con l’innesto del fu Imperatore, la conferma di Burdisso e l’inserimento in rosa di qualche rincalzo – Rosi e Castellini – che si lanciò la sfida a Inter, Milan e compagnia. “Annamo a vince”, scrisse De Rossi a Borriello, appena scaricato dal Milan. All’attaccante bastarono tre paroline. Arruolato anche lui. Ranieri, in quel frangente, pareva invincibile e indispensabile. Guida per la squadra, riferimento per la società. Campionato fin da subito altalenante, il Milan avanti a tutti con le altre capaci di passi falsi dopo un’impresa. La Roma tiene nella massima serie e riesce a passare il turno in Champions League dopo la rimonta entusiasmante sul Bayern Monaco. La Lazio diventa avversario di poca cosa, il trionfo in un derby comincia a stare alla Roma come il fiasco sta all’avvinazzato. In corsa per ogni obiettivo dopo la vittoria ai quarti di finale di coppa Italia contro la Juventus.
MUTANO GLI SCENARI.
Si gioca all’Olimpico bianconero, dominano gli ospiti. Ed è dopo quel successo che, calcisticamente parlando, crolla tutto, compreso l’assioma che amava ripetere Ranieri in conferenza stampa, quando pochi riuscivano a risparmiargli critiche per l’inconsistenza del gioco offerto dalla Roma. Poche idee, troppa confusione, i calciatori in campo non sanno cosa fare, si vince per fortuna o demerito degli avversari. Dire che “contano i risultati” è stato l’appiglio cui il tecnico s’è potuto aggrappare per buona parte della stagione. Fino al post Juventus-Roma di coppa Italia: con l’approdo in semifinale, è venuto mano anche il dato incontrovertibile. Lo scudetto, in tre settimane, è diventato un miraggio (ovvero, obiettivo – lo ripetiamo ogni stagione – del prossimo anno), in Champions si sta con un piede fuori dopo la debacle interna contro lo Shakthar Donetsk. Cambiano vite ed esistenze, in un frangente di tempo. Ed è bastato poco così perché la Roma manifestasse ciascuno dei limiti e dei problemi che hanno portato alle dimissioni del testaccino. Giuste, insindacabili, inevitabili. Perché qualunque alchimia con la rosa si è rotta. Il rapporto forte con la società andato distrutto non appena è svanita la società. Ranieri si è trovato a fare da solo lavoro sporco e pulito, allenatore e presidente, motivatore e psicologo. Attraverso scelte dure e decise con cui, diciamo noi, avrebbe voluto esternare segnali chiari e porsi quale pilastro in mezzo al vuoto pneumatico che sta regnando a Trigoria e dintorni. Un dirigente che sia uno in grado di adempiere alla propria funzione non c’è. Il discorso di senso compiuto e sostanza, negli ultimi tempi, è toccato a Paolo Fiorentino, referente di Unicredit. La maturità dei singoli – da Perrotta al capitano passando per Menez, Juan e tutti gli altri – è stata parecchio sopravvalutata, da tutti, se poi si è finiti per assistere a un gruppo che continuiamo ad appellare così solo per garantire a chi legge la chiarezza concettuale di quanto si asserisce. Ma una cozzaglia di individualità o una serie di gruppetti frammentati non hanno fatto, né mai faranno, un gruppo. Ranieri non ha retto l’urto, a tratti è sembrato pagare oltre misura la mancanza di riferimenti che anche lui, come l’ambiente, ha visto dissolversi minuto dopo minuto. Nell’evidente modifica dell’atteggiamento con cui ha deciso di porsi nei confronti della stampa – e lo si criticava, primi noi, da tempo – parevano altresì evidenti almeno due intenti: quello di non voler finire sbranato dal contesto e l’altro. Riuscire a garantire almeno la presenza di una figura forte, carismatica, in grado di tenere compatta la squadra. L’equilibrio è parso talmente precario che poche sconfitte sono bastate a mandare in frantumi ogni volontà. Come in ogni altro ambiente professionale, una figura autoritaria ha bisogno di legittimazione affinchè il proprio ruolo abbia peso specifico. Era l’unico, il testaccino, in grado di incarnare tale modello. Non certo Montali, non certo Pradè, non certo la Sensi. Non certo chi ha ritenuto che bastasse una comparsata nelle tribune d’Italia qualche sabato sera, qualche domenica pomeriggio. L’amore di Ranieri nei confronti della Roma è stato anche quello di provare a portare a termine un compito enormemente grande e sproporzionato.
La maglia della Roma. Che lambisce il petto.
Ripensando all’intera stagione, uno più legato al club di quanto lo sia stato Ranieri non riesco a trovarlo.
Non il capitano, non il vice capitano, non le punte, né i difensori e neppure gli estremi difensori. La società? Per una volta nessuno può rimproverare la dirigenza di non aver fatto calcio mercato di riparazione. Dicembre inoltrato e tutto gennaio passato a trovare una collocazione. Per se stessi. Di quali mali stiamo parlando? Chi ne è portatore sano?
Scelte tattiche inspiegabili, si è ripetuto ai quattro venti. Vinci a Genova contro il Genoa per 3-0 e stravolgi l’assetto della squadra, perdi a Genova contro la Samp e sbeffeggi Totti chiamandolo in causa per 3’ di gioco, non si è mai capito chi fossero i due centrali titolari, Menez sempre a partita in corso, il capitano spesso fuori, Vucinic ignorato per parte della stagione, Borriello in panchina nelle gare che contano, Riise in campo anche se è un cadavere, la fiducia incondizionata – perché – alla controfigura di Taddei, una formazione diversa ogni partita, un modulo ogni volta diverso tra la gara precedente e quella successiva, le liti in campo tra i giocatori a indicare eccessivo nervosismo, gli improperi tra tecnico e calciatori sintomatici di un malessere latente.
Di tutte le accuse rivolte nel corso dei mesi a Ranieri, ne condivido solo una parte. Quella più squisitamente tattica. Le convinzioni di Ranieri, fin da inizio anno, credo siano state le seguenti:

1) sfruttare nel migliore dei modi la panchina e i ricambi per disporre di un’arma micidiale nel tentativo di vincere le partite a gara in corso: lavoro di strategia e preparazione da parte del tecnico;

2) tenere sotto pressione la rosa escludendo a priori l’esistenza di un undici titolare per far sì che ciascuno sentisse di poter incidere a dovere in ogni frangente: lavoro psicologico sulla squadra;

3) far digerire alla Roma giallorossa l’eventualità che Totti potesse essere schierato in maniera differente rispetto a prima – verrebbe da dire alla “Del Piero” – utilizzando lo stesso metro per ciascuna delle punte in dotazione: era il compito più difficile.

Non ho mai condiviso il resto delle critiche, sebbene sia poi l’insieme delle cose a portare alle giuste – perché lo sono per davvero – dimissioni dell’allenatore. Con una sconfitta al Marassi per 1-0 sarebbe stato altrettanto doveroso proseguire con Ranieri. Quella rimonta da 0-3 a 4-3, invece, è uno scempio che non poteva avere conseguenza differente e, non essendovi un precedente nel campionato italiano, sfido chiunque a sostenere che le responsabilità di quanto accaduto siano del tecnico. Semmai, viene facile ritenere che la rosa in questione – quella capitolina – sia stata assolutamente sopravvalutata (da tutti meno che da Ranieri, il quale ha sempre detto di avere tra le mani una squadra inferiore tecnicamente rispetto ad altre). La rimonta dello scorso anno, in tal senso, ha confuso non poco: convinto di allenare un gruppo caratterialmente superiore a parecchi altri che sovrastavano per doti individuali, ci si è dovuti, Ranieri per primo, ricredere. Cacciarne venti e impensabile, lo era  -ma per altri aspetti – anche esonerare Ranieri. Che, con tutta la dignità nuovamente mostrata,  ha tolto il disturbo. Una scossa sufficiente? Cominciamo col dire due cose: la prima è che sono insistenti le voci per cui un idolo – mio, dei tifosi – quale è David Pizarro abbia rimandato il rientro in campo per divergenze e ruggini con l’allenatore. Fosse davvero così, e non la conseguenza di un infortunio che – come credo – ancora incide – quel giocatore smetterebbe di essere idolo nella misura in cui dovrebbe svestire la maglia giallorossa per sempre. La seconda è che il compito di Vincenzo Montella – inutile dire che mi accodo a quanti ritengono la scelta insensata – è incredibilmente arduo. Al punto da meritare un in bocca al lupo grosso così e ribadire che, in caso di fallimento, sarà il meno colpevole di tutti. In quella che reputo una grossa prova di maturità per Roma, ovvero il salto di qualità che porta a non ritenere sufficiente la statistica che parla di quattro derby vinti su quattro per rimpiangere un allenatore come Ranieri, dico che a me mancherà eccome vederlo sulla panchina giallorossa, ascoltarlo in conferenza stampa, osservarlo a Trigoria mentre sta in tenuta d’allenamento.
La maglia della Roma. Che lambisce il petto.
E se saranno sirene spagnole o d’Oltremanica, è giusto così. Tornare dove hanno imparato a conoscerlo prima, di più e meglio. Nemo propheta in patria, si tramanda nei secoli.
L’altr’anno, magari, sarà il contrario.
In Inghilterra per buona parte della stagione, ci si rivede a Roma per Natale.

C’è chi riesce a voltare pagina prima ancora di finire l’ultima riga.
Realisti, cinici, contabili, delusi.

E chi l’ultima riga ha voglia di viverla fino all’ultima parola.
“Grazie Roma! Auguro a Vincenzo Montella e ai miei ragazzi di tenere alta la bandiera della Roma sempre e dovunque”
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