Roma-Inter, parola alla Storia

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 Da Il Romanista

Alberto Marchesi, grande firma del Corriere dello Sport degli anni ruggenti, era solito raccontare che un giorno, incontrando Fulvio Bernardini a Piazza Esedra (l’attuale Piazza della Repubblica), questi gli avesse indicato una pasticceria: «Vedi, lì facevano e fanno dei bignè alla crema che quando ero a Milano a giocare nell’Inter me li sognavo anche di notte». Ma di Roma Bernardini non rimpiangeva solo i bigné, visto che appena se ne presentò l’occasione tornò nella capitale senza neanche perdere un istante. Il passaggio avvenne nel modo più teatrale possibile sul campo del Motovelodromo Appio, il 4 marzo 1928. Al termine della sfida tra Roma e Ambrosiana, ultima gara di campionato, Bernardini che aveva giocato in maglia nerazzurra se la sfilò e tra il delirio dei tifosi romani si vestì con quei colori che lo avrebbero consegnato alla leggenda.

Se proprio dobbiamo indicare un momento per tracciare la storia della rivalità tra Roma e Inter scegliamo di partire proprio da qui, visto che il ritorno di Fulvio Bernardini segnò, effettivamente, l’inizio del progetto di una Roma da vertice in competizione estrema con i grandi club del nord. Per arrivare a vedere concretizzarsi questa lotta in uno scontro fra giallo-rossi e nerazzurri che valga lo scudetto, occorrerà attendere il 31 maggio 1942. A dire il vero in quella giornata l’unica squadra in lizza per il primato era la Roma che, visto il concomitante impegno del Torino capolista (impegnato a Venezia), si giocava una enorme fetta delle sue possibilità. Il match con l’Ambrosiana si trasformò in un tiro al bersaglio, terminando sul 6-0, tanto che Il Tifone scrisse: «Diciamolo francamente. Da quanto tempo il tifoso romano anelava questa giornata? Da quanti anni egli ha dovuto subire gli sfottò milanesi in particolare e settentrionali in generale? Quante volte egli ha invocato da San Pietro la grazia di concedergli almeno una volta la possibilità di ricambiare le sfottenti, toccanti, pungenti ed eziandio, velenose puntate della stampa e del tifoso lombardo-torinese?». La sconfitta concomitante del Torino a Venezia. consegnò alla Roma la testa della classifica a due soli turni dalla conclusione del torneo. Per assistere al bis di uno scontro scudetto tra le due formazioni occorrerà attendere il 15 marzo 1981. La Roma, in testa alla classifica a quota 27 punti (in uno scomodo condominio con la Juventus), riceve la visita dell’Inter, Campione d’Italia in carica, che insegue a quota 24. Una vittoria, di fatto, rimetterebbe in corsa la squadra allenata da Eugenio Bersellini. Gli ospiti sono anche animati da una forte volontà di rivalsa. Nella gara d’andata infatti, l’Inter aveva subito un’autentica umiliazione. Alla fine del primo tempo Altobelli e compagni avevano lasciato San Siro tra i fischi assordanti del proprio pubblico che sgranando gli occhi poteva leggere nel tabellone: Inter – Roma 0-3. Liedholm aveva costruito un gioiello, un meccanismo in cui tutti gli uomini schierati in campo si preoccupano di giocare il pallone senza avventatezze. Il “Barone” partiva da un concetto molto semplice: «Una volta Alfredo Di Stefano ha detto una cosa che credo giusta. “Per saper costruire una casa bisogna andare all’uniersità per 5 anni, mentre per distruggerla basta un solo martello». Quella Roma batte l’Inter e quasi tutte le altre squadre d’Italia e d’Europa perché parte da una filosofia forte. All’inizio della stagione Liedholm riunisce la squadra e gli propone questo sermoncino: «Pensate a vostro figlio quando un giorno chiederà al nonno: “Dimmi come giocava mio padre?”. E voi volete che il nonno dica al nipote: “Poveretto, ha passato la vita di calciatore a correre dietro un avversario?”». Lo svedese, è chiaro, ha deciso chiaramente di costruire invece di distruggere, ha deciso che siano gli avversari a correre dietro ai suoi ragazzi e alla palla. E l’Inter è letteralmente schiantata da questo meccanismo perfetto, presa a pallonate e perde anche all’Olimpico per 1-0 grazie alla rete di Pruzzo. Solo il gol annullato a Turone priverà quella squadra dello scudetto. Due anni più tardi, il 24 aprile 1983 la Roma si presenta a San Siro con 37 punti, quattro più della Juventus e cinque più dell’Inter che per avere ancora un barlume di speranza di fare suo il titolo deve a tutti i costi battere la Lupa. All’andata la gara con l’Inter era stata decisa da un colpo di genio di Falcao che aveva aperto le marcature. Una punizione su cui Bordon aveva comicamente aperto le braccia a segnalare che la palla terminando sul fondo non era stata toccata da nessuno dei suoi. Il pallone, in verità, terminò la sua corsa trovando la rete e la faccia di Bordon che osserva la scena è entrata da quel momento nella storia del calcio italiano. Nella gara di ritorno, a dire il vero, i lombardi (che scendono in campo schierando 6 campioni del mondo), per niente intimoriti dal fresco precedente, ci provano con ogni mezzo. La Roma, più che mai guardinga, gioca con uno schieramento inedito che prevede lo spostamento di Agostino Di Barolomei a centrocampo e l’utilizzo come centrali di Righetti e Vierchowod. Liedholm contando sulle doti da centometristi dei suoi terzini, Nappi e Maldera, mette in atto un fuorigioco altissimo. Il solo Altobelli cade nella trappola in 15 occasioni. Proprio una rete di “Spillo” annullata per un fuorigioco millimetrico (ma segnalato correttamente), genererà la scomposta reazione polemica degli avversari. Il pareggio 0-0 a Milano è in realtà, nella marcia d’avvicinamento al titolo 82/83 una tappa di grandissima importanza, il luogo in cui, di fatto, svanirono gli ultimi timori. Solo Liedholm rimase estremamente cauto sulle possibilità di vittoria finale sino all’ultimo. L’ossessione del Mister, era legata ad un tremendo ricordo dell’Inter di Herrera, che era stata capace, nella stagione 1964/65, di recuperare 7 punti al suo Milan (un’enormità in un campionato che aveva solo i due punti per la vittoria). L’ultimo anello della catena della nostra serie di super sfide ci porta al 4 marzo 2001. I giallo-rossi sono protagonisti di un campionato semplicemente perfetto guidati da Fabio Capello. L’Inter di quella stagione è una squadra incompiuta, casualmente terminata nelle mani di Marco Tardelli, incapace di darle una reale dimensione. I nerazzurri, insomma, vivacchiano a centro classifica, ma dispongono di un attaccante in stato di grazia come Bobo Vieri. E’ proprio l’ex laziale ad inventare il vantaggio dei nerazzurri raccogliendo un improbabile traversone di Recoba con una conclusione fantascientifica che indovina l’unico spazio tra Antonioli e il palo. E’ il 10’ minuto e la Roma, come dovesse disfarsi di un poco di polvere raccolta sull’impermeabile si riversa in avanti e pareggia due minuti più tardi, con una magistrale punizione di Assuncao. Sarà ancora il brasiliano a far tremare la traversa della rete difesa da Frey al 28’, Montella è un fulmine a raccogliere e a rimettere in rete. Quando sembra che finalmente si possa iniziare a dilagare, Vieri va via di forza a Zebina e a Samuel (che allora indossava la maglia giusta) e impatta il match, abbandonandosi ad un’esultanza non proprio cavalleresca. Nella ripresa Totti colpisce un palo, quindi Collina, il principe dei fischietti italiani, non vede un colpo di mano di Dalmat in piena area di rigore. A quattro minuti dal termine della gara, arriva il gol di Montella che regala la vittoria e che è forse il momento più bello delle sfide tra Roma e Inter di questi ultimi 83 anni, solo chi era lì quella serata può avere un’idea realistica dell’esplosione liberatoria dell’Olimpico, l’urlo selvaggio e incontenibile che salutò il colpo di testa dell’aereoplanino.


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