Menez: quando il calcio è poesia

 Dal Romanista:

E dunque accade di mirare qualcosa d’altro sul fronte d’attacco. E’ inesatto dire sulla fascia destra – ovvero soltanto lì – visto che uno come Jérémy Menez non si ritaglia un solo settore ma fa, del fronte d’attacco, un suo luogo complessivo, una regione dell’anima. Egli avverte quella landa totalmente e in questo sembra che sia ancora in intimità con la fanciullezza; ed è come se la felicità fosse l’infinita giornata, il tempo della vita avvertito sempre favorevole e poi quella giusta “indisciplina” tattica proprio perché tutto è ancora sotto lo stendardo del “gioco”, ovvero fuori da ogni pretesa adulta. E cosa c’è di più spensierato, di più elevato, del creare sublime in spazi ampi dove ha un senso profondo l’azione personale, insistita, la giusta imitazione di chi già fu eroe in un campo di calcio? Questa sintonia con la fanciullezza, questa giusta “irresponsabilità” sono ancora dati visibili in Menez e sono proprio essi a promuoverlo fuoriclasse. Vero infatti è che tale qualifica s’addice non soltanto a chi dispone di colpi e, grazie a questi, s’esibisce in “numeri”, ovvero in una sorta di montaggio delle attrazioni, ma anche a chi, ad un certo punto, decide di definire un cambio d’orizzonte alla partita, a mutare scenario alla sfida. E lo decide da solo non perché non confidi negli altri – nelle “equazioni” degli schemi – ma perché sente che è quello il suo destino. Vi è una grandezza in quella solitudine del fuoriclasse: proprio essa sa creare improvvisamente il sublime; una grandezza che andrebbe anche seguita, ascoltata fuori del campo di calcio per poi essere narrata.

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