Tifo violento, la tessera del tifoso è solo un pretesto

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 La Stampa:

La tessera del tifoso, ultima ed estrema trovata contro la violenza negli stadi, continua a essere il pretesto per nuove violenze, che vanno dalle botte ai saccheggi ai buuu razzisti. Il tifoso è diventato un mestiere, una professione, quasi un «azionista» di minoranza con potere di riscatto (dalle proprie frustrazioni) e di ricatto (nei confronti della propria «azienda»). Le risse e gli agguati, sia chiaro, non sono esclusiva italiana, mada noi affiancano addirittura il calendario estivo dei club: le squadre si menano in campo, i neo-barbari fuori. Morale: calano gli abbonamenti e le tessere, che da sabato dovranno scandire e regolare le migrazioni, sono ferme a quota 200 mila (fonte «la Repubblica»).

Se siamo arrivati a un punto così delicato e burrascoso, si deve al fatto che, in questi anni, abbiamo parlato più degli stadi che dei loro abitanti. Intendiamoci: «parlato» alla nostra maniera, certificandone le carenze architettoniche e giustificando gli eccessi degli inquilini con i difetti delle tane. Tempo un paio di stagioni, e la Juventus avrà il suo impianto: dubito che, all’improvviso, certa feccia scompaia come per magia.

Il primo a teorizzare stadi senza tifosi ospiti fu, casualmente, Silvio Berlusconi. La televisione ha contribuito a svuotare le arene e a riempire gli istinti. Difficile immaginare il calendario spezzatino quali benefici porterà, se mai ne porterà, al ripristino della legalità nelle curve. Il guaio è che, spesso, i primi ultrà sono i genitori; e i secondi, i dirigenti. Quando si cita la tessera del tifoso, il ministro Maroni rifiuta il concetto di «schedatura». All’Uefa non piace, all’estero il tifoso viene considerato tale, e basta: se commette reati, finisce in galera (e non a gestire le bancarelle della società); viceversa, se squaderna la passione in modo positivo, può aspirare a cariche di rappresentanza (Inghilterra). Da noi, si preferisce navigare a vista, in quella zona grigia e ambigua che è l’emergenza continua. Genoa-Milan del 9 maggio scorso venne giocata a porte chiuse perché, a quindici anni dall’omicidio Spagnolo – un tifoso rossoblù accoltellato da un ultrà rossonero – le forze dell’ordine temevano feroci ritorsioni. Ripeto: quindici anni dopo. Limitare la libertà individuale può essere un prezzo da pagare in condizioni particolari, e per un periodo determinato; non, però, al di là di ogni ragionevole rimedio e durata. Ecco, credo che un Paese normale non possa e non debba vivere sempre e comunque sotto la cappa di minacce incombenti, per debellare le quali basterebbe applicare, e non interpretare, la legge.


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