Licenziamenti trasversali e una certezza: Abete. Sempreverde, come chi comanda

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 Un giorno ti suona l’interno. E’ il 666.
E tu sei un signor nessuno con i capelli che a trentun anni cominciano a essere brizzolati. La sera prima hai rimboccato le coperte a una piccola bambolina che si muove in una culla che sembrano (estremità destra, estremità sinistra) le braccia – forti, protettive – di mamma e papà. Guardi negli occhi quello scricciolo di pochi mesi che tutti – gli amici, i passanti, le casalinghe in pensione che incontri al supermercato – dicono somigli tanto a te. La mattina successiva sei in piedi dalle 7: bagno e colazione nel tempo che ti resta da lì al timbro sul cartellino. Tira sempre un po’ di venticello, prima delle otto.
Ti suona l’interno. E’ il centralino. Per interposta persona, il Direttore attende. Ti alzi, lasci la sedia lì. Fantasie: hai lavorato tanto e bene. Gli straordinari non pagati, adesso. Ma chissene… Forse. Chi doveva capire ha capito. Bussi all’uscio, entri con timore, le mani sudano freddo. Però hai sempre dato il massimo. La pelle diventa un gelato, ma ti sforzi di sorridere. Parla lui. Il Direttore.
“Non avrei mai pensato di chiamarLa per comunicare quanto Le sto per dire: però sa. La crisi economica ha toccato in maniera grave anche il nostro settore. Lei, che si è tanto prodigato per l’azienda, del resto, lo saprà bene. Il fatturato è in passivo, va sempre peggio e necessitiamo di una drastica riduzione del personale. Con dolore, ma devo comunicarLe che il criterio individuato per apportare dei tagli e quello dell’anzianità. E Lei, vede, è uno degli ultimi arrivati. E’ difficile farlo, ma devo comunicarLe che da prossima settimana siamo costretti a lasciarLa a casa. Sono mortificato”. Il Direttore.
E tu, quando già sei davanti alla macchinetta del caffè per tentare di cancellare il dolore con mezzo bicchiere di caffeina che non servirà a nulla, scopri che a Piero – 61 anni, in azienda da una vita – è toccata l’identica sorte. A lui, però, hanno fatto il discorso all’inverso: cassa integrazione perché gli mancano pochi anni alla pensione. E va dato spazio alle nuove leve.
Mentre lasci alle spalle – il turno è appena finito – la grossa insegna di una società di telecomunicazioni che sta nell’hinterland milanese non riesci a fare altro. Trattieni il magone e bestemmi.
Da Milano a Bergamo, è un attimo. Il tempo di un’amarezza che diventa rassegnazione.
Nomi e cognomi li ha fatti l’Ansa. Alex Barbieri, 37 anni, di Bergamo e residente a Paderno d’Adda (Lecco), è stato licenziato per aver accompagnato il figlio a scuola. Barbieri, ex operaio alla ‘Bigarella’, specializzata in distributori automatici di bevande e snack, di Cassano d’Adda (Milano), è papà di un bimbo di 4 anni che deve portare a scuola perchè la madre fa i turni dalle 6 per 2 settimane al mese. Appena uscito dalla cassa integrazione in deroga, non ha potuto rispettare il nuovo turno dell’azienda, alle 7 invece che 8.30.
 Da Bergamo a Palermo è più lunga. Ma non impossibile. I chilometri diventano più di mille. C’è il mare di mezzo ma nemmeno quello riesce a fare scudo. E la rassegnazione diventa presa d’atto.
Salvatore Palumbo, operaio edile, viene licenziato dal suo posto di lavoro per aver osato denunciare le condizioni di mancanza di sicurezza all’interno dei cantieri. Neppure il Tribunale riessce a fare giustizia: il giudice ha impedito l’acquisizione di atti, documentazione e testimonianze e infine anche una perizia tecnica sul luogo di lavoro. La chicca è che Palumbo e molti altri come lui vivono a stretto contatto con l’amianto. E di amianto ci si ammala. Si muore.
Da Palermo a Pisa. Via Mediterraneo c’è anche da provare a rilassarsi un istante. E meditare.
Vittorio ed Emanuela hanno avuto uno sfratto esecutivo. Per alcuni mesi – finché Vittorio ha avuto uno stipendio – hanno pagato regolarmente il canone, poi la crisi ha colpito la ditta dove lavorava lasciandolo senza impiego. Emanuela ha perso una bambina appena nata e proprio in quel momento molto doloroso la coppia si è dovuta difendere da due tentativi di sfratto.
Da Pisa a Pavia. Se becchi la stazione giusta, in autostrada, riesci anche a canticchiare qualche motivetto.
La cooperativa multiservizi Milano Euroservice ha licenziato tre lavoratori (ad uno di essi non è stato rinnovato, come promesso, il contratto a tempo determinato a seguito della sua iscrizione al sindacato). Sindacalizzati, hanno chiesto alla dirigenza che fosse individuato il contratto di lavoro sulla base del quale essere retribuiti e fosse adottato un regolamento conforme alla legge sul socio-lavoratore: fare uscierato e/o portierato e non vigilanza non armata. Ma invece di fare uscierato e/o portierato, gli è toccato vigilare gli ingressi e le uscite dallo stabilimento con tanto di placet per le perquisizioni personali. Ebbene: dapprima sono stati, secondo le loro testimonianze, blanditi con irrisorie proposte di denaro – rifiutate – per poi arrivare al licenziamento.
Da Pavia al Sud Africa, Mondiali 2010, è un click. C’è la tv.
 E’ calcio, per carità. Ma qualcuno cerca di vivere anche quello in maniera seria. Come in Francia. Tant’è: Jean-Pierre Escalettes, Presidente della Federcalcio transalpina, ha annunciato le proprie dimissioni: “Dopo un week-end di riflessione, durante il quale ho consultato i miei colleghi e i miei collaboratori, considero mio dovere dimettermi dalle funzioni di presidente della Federazione Francese di Calcio. Assumo con lucidità le mie responsabilità nel fallimento della Francia alla Coppa del Mondo. La mia decisione è essenzialmente dettata dalla volontà di preservare e facilitare l’evoluzione di una istituzione che ho servito con passione per anni”.
Stile, metodo, atteggiamento, dignità.
In fondo, mica ha fatto nulla. Giancarlo Abete. Presidente della Federcalcio italiana che non si è dimesso a seguito dell’identica figuraccia francese. Attenuante: lo spogliatoio azzurro non ha mostrato lo sfaldamento di quello transalpino. Aggravante: la scommessa, sul passato e non sul futuro, è tutta sua. Ulteriore aggravante: il licenziamento di Donadoni fu per la verità una palese ammissione di primo fallimento. A conti fatti, è il secondo.
Fossi Abete, mi dimetterei. Come Escalettes, capace di condividere le responsabilità con Domenech e la squadra.
Se non altro, per un motivo tra tutti: è una persona perbene, che farebbe un favore a se stesso distinguendosi dalla caterva di esempi negativi che non si dimettono mai per l’abitudine di delineare forma e confini, alla società stessa.
Ed è tempo che il trend si inverta in fretta. Lasci stare la cronaca recente. Ignori il caso di Aldo Brancher (non è il modello). E faccia sue, piuttosto, le parole di Walt Whitman.
Sempreverde, come l’Abete.
Barba canuta, lunghissima, crespa. Immancabile cappello adagiato sulla testa. Sussurra sette parole. “Niente resiste tranne le qualità della persona”.
E’ solo calcio, viene da dire.
Vero.
Solo che poi rifai il giro. Dal Sud Africa all’Italia. Una notte in volo.
Dal prossimo settembre saranno cacciati via dalla scuola 25.600 insegnanti, così suddivisi: 8.700 nella scuola primaria, 3.700 nella scuola media e 13.750 nelle superiori.
Perché? Riforme. Perchè?? Riforme!!
Allora, improvvisamente, non pare più solo calcio.
Non è più nemmeno solo questione di soldi e di potere (che, di contro, determinano per altri il rovescio opposto. La mancanza di denaro, l’impotenza).
Solo. Diventa questione di serietà. Coerenza. Rispetto.
Nei confronti di una Storia che fluisce in modo disarticolato e che pone di fronte a casi di diseguaglianza sociale e professionale cui non ci si deve abituare.
Basta e avanza per prendere coscienza del contesto e non dimenticare di chiedere le dimissioni di Abete. Cambierà poco? Nulla? In mancanza d’altro, la sottrazione di legittimazione alle forze di potere pre-costituito sarebbe già un bel passo in avanti.
Lo hanno capito in Francia, dove la carta stampata continua a essere cane da guardia del potere.
Possiamo capirlo anche in Italia: dove si diventa animale domestico da compagnia (non mi è mai successo – e giustamente – di sentire un giornalista che ringrazi un personaggio illustre e meritevole per quello che puntualmente e in maniera impeccabile fa, ho sentito una schiera di cronisti dire grazie a Marcello Lippi dopo l’esperienza del Sud Africa. Vergogna, per insulto alla categoria).


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