Alexander Doni e la solitudine dei numeri uno

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Viene spontaneo prendere in prestito il titolo di uno dei libri più interessanti sfornati nel 2009: “La solitudine dei numeri primi”, di Paolo Giordano. Da primi a uno, ovviamente, lo detta il ruolo. Alexander Doni fa il portiere e ha vissuto lo starno destino di ritrovarsi da titolare inamovibile (con Luciano Spalletti) a panchinaro costante (con Claudio Ranieri). In più, accade anche che quando giochi, non tutto gli vada bene. Il momento negativo passerà. Da Il Romanista:

Il rumore del palo colpito dal tiro di Riquelme, quel 12 luglio 2007, deve essere stato tra i più belli mai sentiti da Doni. Il suo Brasile era in vantaggio (grazie ad un gol di Julio Baptista) sull’Argentina per 1-0 nella finale di Coppa America quando il fuoriclasse della celeste scaricò tutta la sua rabbia su quel fendente che Alexander Marangao Doni non riuscì neanche a vedere. A negare il gol, come detto, sarà il palo, poi la nazionale verde-oro dilagherà vincendo per 3-0. Evidentemente era destino che le cose finissero in quel modo, come era destino che il Brasile giungesse a quella finale battendo l’odiato Uruguay ai calci di rigore e facendo titolare al quotidiano La Repubblica “Doni fenomeno”. Era davvero un fenomeno allora e oggi è forse un brocco? Il tifoso romanista si cruccia in questo quesito guardando all’infortunio di Julio Sergio come ad una calamità ancestrale. In realtà la storia della Roma ha più volte dimostrato come il vero segreto di un portiere siano la forza psicologica, quell’equilibrio interiore che permette di governare la tensione, ma anche e soprattutto un fattore esterno, la fiducia dell’ambiente. E per ambiente intendiamo compagni, tecnico e tifosi. In passato grandissimi portieri giallo-rossi hanno concluso il proprio ciclo nella capitale non certo per limiti tecnici, quanto per il venir meno di questa indispensabile “apertura di credito”.

Emblematico il caso Paolo Conti, passato in pochi mesi dall’essere l’erede in azzurro del futuro Campione del Mondo Dino Zoff, ad atleta “bruciato”. La discesa repentina del “baffo” iniziò il 7 ottobre 1979, con un brutto 3-0 subito a Napoli che aveva indispettito non poco i tifosi. La domenica seguente all’Olimpico il patatrac. La Roma passa in vantaggio sul finire del primo tempo ma Casarin prima di mandare negli spogliatoi le squadre convalida un gol di Claudio Sala assolutamente farsesco, non rilevando il clamoroso fallo di mani con cui il “poeta del gol” si era aggiustato la palla. Gli animi si scaldano e qualcuno mugugna per un intervento poco sicuro del numero uno giallo-rosso, Conti a questo punto risponde con un applauso ironico. L’Olimpico reagisce con un uragano di fischi. Per l’ex numero uno è la fine. La domenica seguente a Udine Liedholm farà debuttare Tancredi mentre il mensile Giallorossi dedicherà all’ex titolare una copertina che sa d’epitaffio, ritraendo l’istante dell’applauso “suicida” . Quando il 24 febbraio 1980 il tecnico svedese tornerà a schierare Conti all’Olimpico (Roma – Udinese 1-1), vi saranno ancora soddisfazioni per lui (un derby vinto da titolare ad esempio), ma il feeling con il pubblico si era spezzato per sempre. Logorato psicologicamente, crollò nella prima metà dell’aprile del 1980. Il dramma si consumò definitivamente il 13 aprile contro la Juventus. Su un traversone, dopo appena 2’ di gioco una sua incertezza riuscì a mandare in rete Claudio Gentile. I 70.000 presenti videro Francesco Rocca imbestialito urlare viso a viso con il suo portiere che rispondeva con la stessa veemenza. Da un numero uno “sfiduciato” dal pubblico ad un numero uno “sfiduciato” dall’allenatore, ovvero Fabio Cudicini. Il destino di uno dei più grandi portieri della storia della Roma si compie già durante il ritiro della stagione 65/66. Il “Ragno Nero” soffre di forti dolori alla schiena che ancora oggi Giorgio Rossi può testimoniare e confermare. Il tecnico Oronzo Pugliese è costretto a spedire in campo Matteucci, ma non crede ai problemi fisici del suo titolare. Inizia così a pressarlo per tornare in campo: «Devi resistere e sacrificarti, così andrai in Paradiso». Cudicini cede e il 19 settembre rientra tra i pali nella vittoriosa trasferta di Genova. La via che ha imboccato, però, non è quella del Paradiso, ma di un lento martirio che lo prostra mentalmente e fisicamente, sino alla fatidica data del 1 maggio 1966. La Roma perde all’Olimpico contro la Fiorentina, sconfitta brutta, agevolata da un errore di Fabio che rientrando negli spogliatoi, tormentato dai dolori alla schiena ha un gesto di stizza, si sfila la maglia, la getta su una panca e urla in faccia a Pugliese che non avrebbe più giocato sino a quando non fosse guarito del tutto. Pugliese si metterà a rapporto da Franco Evangelisti inventando una panzana colossale: «Cudicini negli spogliatoi ha calpestato la maglia della Roma e ha detto che non giocherà più per me. Dunque o io o lui». Il presidente invece di rispedire l’allenatore a Turi si disfa di Cudicini che, dopo aver accarezzato l’idea di smettere di giocare, si accasa al Brescia e in seguito al Milan, dove vincerà tutto. Di volta in volta in questi ottantatre anni, Masetti, Panetti Ginulfi, Tancredi, Cervone, Antonioli hanno subito questo destino. Quasi mai un portiere defenestrato è riuscito a riconquistare la fiducia perduta, forse, l’unico ad esserci realmente riuscito è stato Guido Masetti. Ma Guido aveva dalla sua parte una comunicativa e un rapporto con i tifosi che Doni non sembra avere. Quando il 26 gennaio 1941 rientrò in prima squadra contro il Bologna macchiandosi di un errore che poteva costare carissimo alla Lupa impelagata nella lotta per non retrocedere, il futuro capitano dello scudetto alzò il braccio verso i popolari per chiedere scusa. La gente applaudì a scena aperta con generosità, il rispetto e l’amore si dimostrarono una muraglia fatta di ricordi, passione, affetto capace di reggere ad ogni urto.


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