Lazio-Roma, stadio Olimpico ore 18.30. Si gioca domenica 18 aprile. Claudio Ranieri vuole il tridente ma uno tra Totti, Toni, Vucinic e Menez è di troppo. A rischiare la panchina, stavolta, c’è anche il Capitano che, tra i quattro, è forse quello fisicamente meno pronto. Daniele De Rossi, oggi, ha fatto differenziato. Lavoro di scarico per smaltire la fatica. Nulla di preoccupante. Il ballottaggio tra Simone Perrotta e Rodrigo Taddei dovrebbe risolversi in favore dell’italiano. Juan torna al fianco di Nicolas Burdisso, Mexes nuovamente in panchina. Per rendicontare i fatti. Ma come accade nelle situazioni più delicate, spesso saltano tutti gli schemi. E stavolta, del dovere cronacistico, non riesco a non farne a meno.
Roma mia,
comicio a incespicare. Tra i miracoli e le sensazioni. Là fuori, dentro di me. In mezzo a questo giallo intenso che guadagna un centimetro alla volta, in mezzo al rosso fuoco che porta vampate su vampate. Nel cervello è baldoria, in fondo al cuore sono brividi. Di già. Lazio-Roma si è messa a bussare coi pugni chiusi. I poeti, stasera, saranno anche capaci di immortalare un attimo e renderlo eterno. Venditti me l’immagino chiuso in una stanza insonorizzata a far corrispondere nota e parola. Nota e parola.
Verrà fuori un capolavoro e fra due mesi, in curva Sud, ci faranno il karaoke. Ma io non scrivo, non sono poeta.
Quando soffro, a uno come me, le sensazioni gli restano a un bivio. In gola, tra l’esofago e la bocca. Nello stomaco, non vanno su e non vanno giù. Ogni emozione s’azzuffa con quella immediatamente prossima: viene fuori una mezza rissa interiore. Si accapigliano, si rotolano, lottano. E mi lasciano in uno stato di analfabetismo cronico che mi toglie la fame, allontana il sonno. Di conseguenza, vegeto e immagino. La penultima sera che scivola via. Dicono che il tempo regali la capacità di gestire ogni situazione. Sarà. Ma ogni volta è la stessa storia, uguale alla volta prima. Più ci penso e più manca saliva. Ora poi. Mai successo di sognare un Sogno. E sto così. Che se nessuno me ne chiede, lo so bene; ma se volessi darne spiegazione a chi pone quesiti, non lo so. Venditti me l’immagino seduto a un pianoforte mentre riesce a immortalare tutta la passione che c’è in un connubio di arrangiamento e strofa. Arrangiamento e strofa. Ne uscirà fuori un classico a cui, nelle notti di festa, un Olimpico capitolino tinto di Roma saprà rendere omaggio. Ma io non scrivo, non sono poeta. Quando soffro, a uno come me, il flusso di percezioni gli resta a un bivio. Non saprei dire una parola di più che non sia “Roma mia”. Ma in sette lettere, lo so, ci sta assemblato l’amore mio infinito.