Totti, l’ultimo vero capitano d’Italia

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 Da Il Foglio:

Totti può girare anche in Ape. Chiunque sia stato a danneggiare la sua Mercedes non ha visto l’ultimo spot. “Donne, è arrivato Franceschino”. C’è sempre, lui. Da quindici anni Roma non parla d’altro: tre quarti l’adora, un quarto lo detesta. Sarà lì che cercheranno chi gli ha sfondato il parabrezza con una pietra. Laziali indiviosi? Romanisti delusi? Nessuno scommette perché forse non è né l’uno e né l’altro. Totti è un monumento anche per i nemici e i monumenti non si prendono a pietrate neanche se sei il più irrispettoso dei teppisti. Lui non ne parla neanche: parla di altro. Di sé, della Roma, della Nazionale.

Il viale del tramonto di un mito può essere lungo o breve, dignitoso o disastroso. Totti l’ha imboccato nell’inizio di stagione più difficile della sua carriera. Non sa come sarà il percorso, sa che deve percorrerlo. L’Ape è uguale alla Mercedes, forse anche meglio perché la lentezza allunga i tempi, moltiplica le fermate. E qui ogni stop è una boccata di vita: gol, assist, gloria. Date un Autogrill della vita a Totti, perché significa che ce lo terremo ancora per un po’. Con le sue giocate, con le sue uscite, con il suo carattere. L’ha imboccato quel viale, Francesco. Ma non è detto che sia corto. Roma è una benedizione per chi non vuole arrivare in un posto e Francesco non ha premura, non ha nessuno che l’aspetta. Ha se stesso invecchiato e non è certo l’uomo che vuole raggiungere il prima possibile. Allora combatterà, lotterà, s’arrabbierà, segnerà. Farà Totti, sarà Totti, cioè Roma e la Roma, il capitano di una squadra e anche di un’era. Perché il suo essere l’equazione con risultato zero di una squadra e di una città lo rende universale e collettivo. Chi non è tifoso della Roma lo rispetta per la sua scelta di essere ciò che è stato per tutti questi anni: il patriota di un mondo fatto di senza patrie. La chiamano bandiera, con quel tocco di nostalgia in grado di ammazzare il romanticismo racchiuso nella volontà di rimanere a ogni costo a casa propria per farla diventare grande come mai. Totti bandiera è un’ovvietà che non esalta Francesco: lui è un patrimonio, che è la stessa cosa, ma molto più ampia. E’ l’invidia di chi non ha un indigeno che parte dalle giovanili e arriva a essere il capitano di una squadra che rivince lo scudetto dopo quasi vent’anni. Bandiera può diventarlo quasi chiunque. Patrimonio no. E Totti è inimitabile adesso e chissà per quanto. E’ una vetrina che guardi con la bava alla bocca, come quando vedi un manichino vestito esattamente come vorresti esserlo tu, solo che una volta indossato tutto t’accorgi che su quel pezzo di plastica è tutta un’altra cosa. Ecco: Totti ha avuto emuli e avrà eredi, ma nessuno sarà come lui. Ha già messo in cantina il principe Giuseppe Giannini, anche lui romano e romanista a vita o quasi, ma incapace di trasformare in Gianninismo la sua stagione pallonara. Totti invece ha creato il Tottismo, un genere specifico e definito dalla sua incredibile capacità di personificare il duello, il confronto, lo scontro. Totti è la Roma anche quando è infortunato, anche quando è squalificato. E’ il capitano al quadrato, padrone della fascia anche se magari un giorno quella fascia è sul braccio di Daniele De Rossi. Basta pensare all’anno scorso, quando la Roma ha compiuto il quasi miracolo di arrivare allo scudetto nonostante per la gran parte della stagione abbia giocato senza Totti. Ecco, Totti c’era anche da assente. La mancanza ha alimentato il mito, lasciando tutti con la sensazione che potesse rientrare: c’era la forza dell’attesa, l’ansia da ritorno, la certezza che se senza di lui le cose funzionavano, figurarsi con lui. L’abbiamo scritto e conviene ripeterlo: Francesco è il capitano ultimo, non l’ultimo capitano. Non è l’esempio morale a spingere gli altri a seguirlo. Lui è una guida, un totem della fiducia: lo vedono sbattersi per tornare in campo e s’impegnano di più. Se lo fa lui, lo devono fare anche loro. E’ un messaggio criptato: corre senza correre, parla senza parlare, gioca senza giocare. Al rientro in campo dopo il lungo infortunio, l’anno scorso fece dieci minuti appena: niente di che, ovviamente. Però era come se fosse sceso in campo un Dio. L’attesa collettiva, il boato al primo passo, la paura al primo fallo subito. Un imperatore acciaccato che ha aumentato il suo carisma in maniera inversamente proporzionale rispetto al suo stato di salute: più è rotto, più l’ascoltano. Non insegna a comportarsi, non impone lo stile pulito, raffinato, elegante. Non è punto di riferimento per le nuove generazioni: un modello da imitare per essere sportivamente corretti e calcisticamente fenomeni. Totti è il capitano di una squadra che alterna cicli da impero a cicli da provinciale. Lui sta lì, che sia in campo o che sia in tribuna. Sempre con quell’atteggiamento che l’ha trasformato in leader: da solo contro il mondo, perché la sua forza è sempre stata anche quella di sentirsi un diverso, un gladiatore nell’arena, un Massimo Decimo Meridio con ottantamila legionari e con il resto d’Italia a fare da spettatore accanito in un Colosseo immaginario. Ha vissuto con la sindrome dell’accerchiamento, di una romanità vissuta come orgoglio, ma con la sensazione che per tutti gli altri fosse una penalizzazione. Avrebbe potuto andar via: è rimasto per se stesso e per gli altri, soprattutto perché in un altro posto non sarebbe stato lo stesso. “Totti è la Roma”, dice spesso Bruno Conti, il quale ha fatto la stessa scelta in un’epoca in cui però era tutto più semplice. E’ stato più complicato, per Francesco. Perché essere grandissimi in una città non sempre porta a essere grandi per tutti. E’ così che ogni tanto è finito fuori giri. Lo ricorderà qualcun altro adesso che ha riaperto la porta a una sua potenziale chiamata in Nazionale. Tanto vale allora che lo ricordiamo anche noi. Totti, in nome della romanità a ogni costo l’Italia l’ha mollata. Disse così: “Voglio concentrarmi solo sulla Roma e poi sono stufo delle accuse e delle critiche. Io ero orgoglioso di far parte del gruppo di quella squadra. Ma al Mondiale del 2006 mi hanno attaccato in troppi ed è successo solo perché sono romano”. Sapeva che non era vero. A rimorchio per giorni documenti, interviste, filmati, ricordi, memorie, battute: “Tutte le volte che il resto d’Italia ha distrutto Totti”. Tutto il paese si ricorda che la coppa del Mondo è stata vinta grazie a lui. Giocò da Totti praticamente mezz’ora in tutto. Mezz’ora contro l’Australia: il tempo di lanciare Grosso, di fargli prendere il fallo e poi di battere il rigore più difficile della carriera. Basta. Può anche avanzare, volendo. Invece il mondo che gli sta accanto deve avere sempre un sorso per autoalimentarsi. Allora l’intervista, il livore, l’atteggiamento da solo contro tutti. Poi Manchester, la sfida contro lo United e quell’altra uscita da numero uno a ogni costo, da legionario romano alla conquista del mondo: “Per me questa partita vale più della finale del mondiale. Questa è la Roma”. Perse 7-1. Si può dimenticare, certo. Si può perché nessuno saprà mai quanto abbia inciso la sua volontà vera o il sistema pallonaro romano che a volte distorce anche le cose semplici. E Totti, in fondo, a quelle appartiene: è un ragazzo normale che gioca da fenomeno quando fa le cose normali. Non è Messi che fa magie a ripetizione. Non è Cassano che ha bisogno della giocata in mezzo a tre uomini per sentirsi vivo. Totti risolve tutto con un tiro forte. Oppure con un tocco intelligente. O con un pallonetto imprevedibile. Non è vittima della sindrome dello specchio, che pretende che tu ti guardi prima di fare una cosa per essere più figo del solito mentre la fai. Francesco ha sempre avuto la cifra della semplicità, nella vita, in campo, a casa, in televisione. Ed è nella semplicità che ha sempre fatto muovere il suo ruolo da capitano: un leader chiassoso, non silenzioso; un portavoce di sé e degli altri. Giusto o sbagliato che sia. Totti è un partito. E’ l’erede quasi in pensione di una genia che per ora non ha successori. E’ arrivato dopo Del Piero, l’uomo messo in croce, dopo Baggio che ha subito più processi pubblici di un criminale internazionale. Gli allenatori l’hanno messo su un piedistallo seguendo per una volta Zeman. Al mister boemo chiesero: chi sono i cinque calciatori più forti d’Italia. “Totti, Totti, Totti, Totti e Totti”. A differenza dei suoi predecessori Francesco appartiene anche a qualcosa di più della dinastia dei numeri dieci. Sta nell’Olimpo dei capipopolo. Con lui ci sta lo sputo, la spinta all’avversario e l’insulto all’arbitro. Ci sta la manina pendula mostrata a Tudor in un Roma-Juve di qualche anno fa: “Quattro, andate a casa. Via”. Ci stanno i gomiti alti, le magliette con la scritta “V’ho purgato ancora”, gli spintoni al povero Vito Scala amico fraterno e poeta dei massaggi per le povere articolazioni doloranti di Francesco. La semplicità è anche il resto. Il suo modo di vivere fuori dal campo, quello che è arrivato nelle case di tutti attraverso la saga degli spot Vodafone. Ovvio che Totti non è così, ma ci siamo convinti che invece lo sia. Quelle pubblicità che all’inizio sembravano sciocche hanno trasformato Francesco in un fenomeno non più solo romano. Prima era così: la romanità e la Roma erano il recinto nel quale Totti era un Dio, con le radio e i giornali, la gente per la strada, la tassista che adesso costeggia l’Olimpico e chiama al telefono qualcuno: “Sto passando davanti alla casa dell’As Roma. Sì, lo so che è del Comune, ma esiste solo una squadra a Roma. Cioè la Roma. Quindi lo stadio è suo”. E’ quel mondo e quella mentalità da padroni dell’universo, quel sistema che l’ha ingabbiato in un personaggio che non funziona più dallo svincolo di Settebagni in poi. Urbe. Fuori dal raccordo anulare, il fenomeno Francé era incomprensibile e inimmaginabile, a volte anche grottesco, ridicolo, assurdo. Come li vedi sti due cornetti a fratè? “Li vedo ‘na favola. Li vedo come er cucchiaio de Totti”. Una popolarità da cabaret, così l’ha bollata per molto tempo il nord, convinto che il fenomeno fosse folkloristico. Lo spot e la semplicità con la quale Francesco entra negli schermi di tutta Italia hanno modificato la percezione. Quasi fosse antesignano del film “Benvevuti al Sud”, Totti ha sdoganato se stesso fuori dal raccordo anulare. Life is now, allora. Anzi, come fa il claim oggi? Più Internet per Totti… anzi per tutti. La forza di Francesco è la sua voglia di essere sempre lui. E’ questo che lo fa capitano: come se avesse la fascia stampata o tatuata. L’identificazione con la squadra è il marchio che lo distingue dagli altri. Perché tutti i capitani sono numeri uno, ma soltanto lui è destinato all’eternità a prescidere da come andrà a finire la sua carriera: “Chi tocca Totti muore”, diceva uno striscione. Rimanere, restare un simbolo, un’icona, un diverso l’ha reso inattuale e antimoderno, utilizzando la metafora della bandiera per fotterlo allegramente: l’ultimo baluardo di un calcio che non c’è più, il giocatore che resta a casa invece di emigrare e rimare non per soldi ma per fare grande il suo mondo, per avere il ricordo perenne e la gloria infinita. Per essere un Dio di un Olimpo che ha fatto cadere tutti gli altri. Lui ha goduto e gode: nessuno lo critica, se sbaglia un rigore è colpa del campo o del pallone, magari pure del mister o del compagno. Se prende un’ammonizione è perché sta antipatico all’arbitro oppure perché c’è un disegno antiromanista. Per questo è stato troppo strano l’inizio di questa stagione: lui che non gioca da Totti, le incomprensioni con Ranieri, le sostituzioni, quella dichiarazione bizzarra “se sono un problema sono pronto a farmi da parte”. Questa non è Roma. Questo non è Totti. La pausa è arrivata quando serviva. Niente pallone, niente partite. Aspettate. Non è finita per la sua squadra. Non è finita per lui. Momento del capitano, il simbolo di Roma e della romanità. Il bimbo de Oro. Francesco… Totti”. C’è ancora, c’è sempre. Non si muove, resta. Sarà il nuovo Bruno Conti, dice. Quando smetterà farà il direttore sportivo di questa squadra. L’ha sempre detto, almeno lo dice da qualche anno. Non ha ancora deciso quando: l’unica data certa, fino a poco tempo fa, era maggio 2009. Si giocava la finale di Champions League a Roma. Lui, Francesco, sogna Roma-Liverpool. Sognava i rigori. Perché Falcao, Pruzzo, Graziani, Conti e gli altri. La finale dell’84. Il ricordo: Venditti, le lacrime. Grazie Roma. sarebbe stata una grande fine. Si continua, invece. Sembra strano, ma vuole vincere ancora, perché dice che prendersi una coppa a Roma vuol dire prendersene due da un’altra parte. “Vale doppio, vale doppio”. Perché lo sanno solo loro. Lo sa lui. Fare il capitano alla Roma non è come farlo altrove. Né alla Juventus, né al Milan, né all’Inter: a Trigoria come a Testaccio i sogni sono lontani e bellissimi. Spesso gli altri possono raggiungerli e tu no. Allora come fai? C’è bisogno di una voglia che altri non hanno, c’è bisogno di una forza che altri non hanno. Totti ha cominciato la strada della discesa verso quel giorno in cui non metterà più i piedi sull’erba, ma non ha ancora deciso quanto sarà lunga. E poi sicuri che conti davvero? Con o senza di lui in campo è praticamente la stessa cosa. Possibile? Possibile. Anzi di più. Sicuro: Totti non è il gol che manca, è la faccia che serve per pensare di potercela sempre fare. Che giochi o no è un dettaglio. Lui c’è lo stesso, con la fascia al braccio.


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