Roma-Inter: stadio Olimpico 27-03-2010. Veni, vidi, vici

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 Quando volti la testa e alle spalle c’hai l’Impero glorioso, ogni attinenza viene facile. Spontanea. Nel momento della sua massima espansione, il Sacro Romano disponeva di 80.000 chilometri viari, suddivisi in 29 strade che si irradiavano da Roma verso l’Italia. Il sistema viabilistico seguiva una logica urbanistica a prova di scemo: le strade erano disegnate in quella maniera per ostacolare le province dall’organizzare una resistenza contro l’Impero. Avere tutto sotto controllo. Prevenire ogni rivolta, prevedere qualunque ostacolo ed essere pronti a fronteggiare il nemico avendone letto in anticipo le mosse. Da allora, è cambiato il mondo.
TUTTE LE STRADE PORTANO A ROMA. Diciamo dall’Impero alla democrazia per riassumere sinteticamente il trapasso epocale. Ora che il campo di battaglia diventa uno stadio – dal cielo aperto tra alberi e generali alle note stellate di un Olimpico tutto esaurito – ora che i nemico si è trasformato in avversario, ora che la guerra ha assunto le fattezze di un campionato e che la battaglia è diventata una partita di calcio, un dato rimane uguale a migliaia di anni fa. Che tutte le strade portano a Roma. Per Roma-Inter. Il collegamento all’evento sarà mondiale (l’etere ha preso il posto dei messaggeri), numeri che vanno ben al di là del sold out ufficializzato dalla società capitolina con un comunicato emesso nel tardo pomeriggio di oggi. L’ansia freme, l’attesa cresce, le emozioni cominciano a circolare in corpo come accade nei momenti decisivi. E’ bastato mettere in palio uno scudetto. Per coinvolgere i giallorossi, i nerazzurri e gli amanti del pallone che rotola in generale. Ad annunciare l’assalto, non più invasioni ma dichiarazioni rilasciate a mezzo stampa. Calciatori che prendono la parola come a suo tempo, gli eserciti, erano pronti ad annunciare la propria reattività impugnando l’ascia, tenedo nella sinistra lo scudo. Solo Josè Mourinho si è sottratto, come Genserico, salito al trono dei Vandali nel 428 e ricordato per il suo lato più taciturno nonostante la provata capacità di trascinatore.

Per il resto, le affermazioni si sono rincorse una sopra l’altra. Come i raggi delle bighe dei Generali.
QUI INTER. Massimo Moratti lo ha detto il giorno dopo la vittoria interista contro il Livorno: “Roma-Inter? Ci arriviamo in buone condizioni. Siamo anche riusciti a non spendere tanto, a far riposare chi era più affaticato, come Milito“. Ha fatto seguito Ivan Cordoba:Quello che ha fatto la Roma merita lode, ha fatto una rincorsa impressionante. Perciò, noi dobbiamo spingere ancora di più, perchè sappiamo le potenzialità di cui dispongono e come arrivano alla partita di sabato: non possiamo dargli speranza“.
QUI ROMA. Complice l’impegno in due differenti Atenei della capitale, sul versante giallorosso più di una voce d’espressione.
SENSI, MAGARI.Rosella Sensi non si è sbilanciata ma, alla domanda “Credete allo scudetto?“, un “magari” se l’è fatto scappare.
MONTALI, CONSAPEVOLEZZA. Gian Paolo Montali ha rimarcato il gran cammino che la Roma è riuscita a compiere in questo periodo: “Sabato giochiamo contro i migliori, contro la squadra più forte. Non c’è niente di più nobile di giocare e provare a vincere contro la squadra più forte. Noi ci arriviamo con la consapevolezza di aver lavorato molto bene in questi ultimi 4 mesi. Siamo concentrati, sereni perché quello che abbiamo fatto fino adesso nessuno ce lo potrà togliere“.
PIZARRO, OTTIMISMO. David Pizarro è tutto concretezza e realismo, geometra anche con la parola. Ma quell’ottimismo spiccato del cileno fa ben sperare: “Squadre così forti fisicamente vanno attaccate a tutto campo, togliendogli il pallone e giocando palla a terra. Noi abbiamo nel DNA queste caratteristiche, oltre a tanta tecnica da vendere: abbiamo le armi per battere l’Inter“.
TOTTI, LA PRESENZA.Sono a disposizione“. Una frase da una ventina di battute, tre parole per tornare a fare il Capitano. Francesco Totti ha voglia di rientrare e spaccare il mondo. Lui, il legionario ce l’ha tatuato sulla pelle. Lui, quella pelle è sempre stato il primo a venderla cara. Anche se occorreva difenderla con una gamba sola, con una sola mano.
VENI, VIDI, VICI. Volti la testa e per un attimo lo rivedi lì. L’Impero nella sua maestosità. Dalla Britannia alla Mesopotamia, dalle Colonne d’Ercole al Mar Caspio. Tutte le strade portavano a Roma allora come accompagnano in direzione dell’Olimpico sabato pomeriggio. Ti giri in là con la memoria e, per quanto si vada a scontrarsi con la storia che insegnano sui libri, gli scontri epocali te li immagini diversi. Non ci sono più primi ordines, soldati, Generali; non c’è il tribunum militum nè le coorti nè le cavallerie. Al posto delle truppe ausiliari ci sono due panchine nelle quali stanno seduti uomini in tuta. Pronti a intervenire. A supporto di ventidue professionisti in calzoncini corti col pallone tra i piedi. Ci sono portieri e difensori, centrocampisti e attaccanti. Ci sono 90′ lunghissimi minuti a sancire un verdetto, per vincere si segna. Non si uccide. A determinare il corso degli eventi, un arbitro. Non il sangue. A guidare il gruppo l’allenatore, non il Generale. A garantire il vantaggio, una rete. Non la morte degli altri. Sul campo di calcio, silenzio e concentrazione, non le grida del campo di battaglia. Tutt’intorno il frastuono assordante di 80 mila fortunatissimi, non il silenzio di attesa della natura circostante. Ma il cuore, le palpitazioni, l’adrenalina, la carica, le fragilità, i chiari di luna voluti dalla sorte sono gli stessi di sempre. Come sempre, chi vince e chi perde. Come sempre, la Gloria in palio. Stavolta, quella di un tricolore da affiggere sul petto. Non c’è scritto nulla, ma è come se fosse riportato in calce: veni, vidi, vici.


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