Addio Bearzot: con quella pipa fumavi saggezza…

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 Da LaSignoraInGiallorosso.it:

Da un poderetto al podio più alto di un Mondiale servito a fare gli italiani ancor più di quanto siano stati capaci politica e tivvù. Emblema di un’esistenza vissuta in costante crescendo, la carta di identità: nascere ad Aiello del Friuli, spegnersi a Milano. Enzo Bearzot lo hanno raccontato, lo raccontano e lo racconteranno ancora pozzi di conoscenze specifiche che hanno avuto piacere e fortuna di condividere, col grande vecio, se non aneddoti e circostanze, quantomeno contesto e generazione. Passato a miglior vita da poche ore, per Bearzot si sono già spesi migliaia di grazie. Prima di notte saranno milioni. Per i modi, per la classe, per lo stile e l’eleganza di chi non ha mai sbagliato tempistiche e modalità. Fugge via la vita di chi ha potuto vivere a lungo e con pienezza: si è spento alla dignitosa età di 83 primavere accumulate. Ferro e temperanza, si dice del Friuli: sta per concretezza, sta per pragmatismo. Terra di confine in cui si impara a crescere con ordine e rispetto: quello di un’umanità con caratteri distinti ma pure – aiuta, aiuta – quella di una delimitazione geografica che suggerisce di assimilare il messaggio. Stare al proprio posto, un piede a oriente sta la Slovenia, un piede più in alto e finisci in Austria. Dall’alto a destra, poi, guardi di sotto: visuale di tutto privilegio per decidere in fretta. Restare, partire. Temprati e fieri, per molti restare è un dovere. Qualcuno, in verità, partì. Ma partì col Friuli nell’epidermide.

Il calcio giocato di Bearzot è stato quello del dopoguerra: mediano-difensore nella squadra del paese natale, nel 1946 si trasferì alla Pro Gorizia. Cadetteria quale vetrina lineare per una carriera da lì a venire: l’immediato futuro si è chiamato poi Inter, Catania, Torino. 251 presenze in A, una sola comparsata in Nazionale.

Scarpini al chiodo nel 1964, iniziò l’apprendistato tecnico sulla panchina del Torino come assistente di Nereo Rocco prima di cominciare ad allenare per davvero. Stagione 1968-1969, il Prato. Da lì all’Azzurro marchiato sul completo, fu un attimo. Come sempre, ingresso in punta di piedi: allenatore delle giovanili, poi assistente di Valcareggi nella Nazionale maggiore, in seguito vice del neo Ct Fulvio Bernardini. Nel 1975 divenne commissario tecnico (ruolo in condivisione con lo stesso Bernardini fino al 1977) e, dopo aver mancato la qualificazione all’Europeo nell’anno successivo, affrontò i mondiali del 1978 e l’Europeo del 1980 chiudendo al quarto posto. Bella e incompiuta, si disse di quell’Italia che qualcuno – per capacità di espressione corale che non collimava in pieno con i risultati acquisiti – ha rivisto nella Roma di Spalletti.

Osserva, vivi, impara e migliora. Per non fare la fine di quelli che a Trieste cagan su l’amo, venendo meno a una promessa. Bearzot era conscio di avere cominciato a lavorare su un gruppo – i vari Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli – che quattro anni dopo avrebbe avuto la maturità e l’esperienza necessaria per affrontare un appuntamento a cui non ci si poteva presentare impreparati. Perchè l’Italia non vinceva da tempo immemore e per il fatto che il nostro calcio era reduce dallo scandalo delle scommesse e pareva sul viale di un tramonto – se non tecnico – quantomeno morale. Le scelte furono tutte di Bearzot che potè contare sul corregionale Zoff (alenatore in campo) e che puntò deciso su Paolo Rossi, reduce da una squalifica e in condizioni tutte da verificare. Ne fece le spese Beccalossi, rimasto a casa.

Fiditi di pos, vuarditi di duc’. Fidati di pochi, guardati da tutti. Enzo Bearzot, da un poderetto al podio più alto, cementò da sè un gruppo più unico che raro: capace di incassare critiche, resistere alle pressioni, ignorare le delusioni, tirar fuori un carattere senza eguali. Quel Mondiale – Spagna ‘82 – lo si vinse prima ancora che sul campo, prima ancora che per tecnica, con la testa. Furono quelle giornate memorabili a svelare al mondo intero una delle ultime ali vere, Bruno Conti da Nettuno con una fede griffata di giallo e di rosso.

Nell’86 il cuore prevalse su ogni altra logica: Bearzot scelse di proseguire con gli elementi che avevano sollevato la Coppa ma quell’ossatura era più vecchia di quattro anni. Nemmeno la testa, a quel punto, bastò. Con un patto d’onore e una scelta di stile: l’avventura delc friulano sulla panchina azzurra finì così. Troppo facile scrivere del quadriennio 1982-1986 e rivivere mentalmente i quattro anni tra il 2006 e il 2010.

Lontano dalla recente evoluzione – o involuzione che dir si voglia – del contesto calcistico, Bearzot segna di fatto uno spartiacque tra un modo precedente di intendere il pallone e uno successivo. Di lì a poco, l’ingresso nel calcio di Silvio Berlusconi avrebbe contribuito alla nascita di un contesto in cui la priorità dei termini sarebbe mutata. E, con la veemenza del nuovo moderno, il calcio spettacolo avrebbe chiuso il sipario e avrebbe fatto i suoi primi vagiti lo spettacolo calcio. Che è ben altro.

Lontano dagli occhi, a un paio di generazioni – quella successiva, dei padri e dei figli di oggi – è mancata una figura eloquente come quella del Vecio tutto d’un pezzo. Con la pipa e il gioco della scopa, la stretta di mano e il sacrificio a fare da cornice a un insieme di galanteria. Hanno fatto seguito il poker importato dall’America mentre la pipa è diventato un narghilè. Hanno fatto seguito gli sms a tre lettere per dire tutto e i contratti firmati il giorno prima e ignorati quello successivo. Hanno fatto seguito i successi facili in cui non si suda con anticipi e posticipi a destrutturare il protagonismo di vita della massa. Va via una persona autentica per evidente limite d’età e la sensazione di chi lo ha conosciuto sui libri e attraverso filmati datati sempre più con il passare degli anni è che la tristèrie si impare cence mèstris. La cattiveria si impara senza maestri perchè tal pais dai zuète, duc’ a’ crodin di cjaminà drets. Nel paese degli zoppi tutti credono di camminare diritti. La riflessione attutisce i rumori e compone il più bel disegno nel silenzio, che diventa tutto fuorché assenza. Tra quei silenzi dell’ultimo periodo, Bearzot ha senz’altro espresso un giudizio perentorio. Che, se non condiviso, andrebbe quantomeno preso in considerazione. Ci ho sempre letto una proverbiale espressione friulana. Il prin pecjàt al prepara il secont. Il primo peccato prepara il secondo. La speranza è che con quella pipa Bearzot non abbia fumato tutta la saggezza che c’è.
Auden Bavaro


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