Pietro Mezzaroma ad Asromalive.com: “La Roma? Con lo stadio un pensiero lo farei”. La proposta del figlio: “Un pool di imprenditori per salvare la società”

di Redazione 7


 Un pensiero. Un pensiero, sì, lo farei“. Il pensiero si chiama A.S. ROMA e nella mente di Pietro Mezzaroma si sta riaffacciando, insieme al progetto per il nuovo stadio. Lo affida ad Asromalive.com, mentre il figlio Massimo, presidente della Roma Volley, nonché tifoso doc, frena lo slancio del padre: “Se mi regalasse la Roma lo farei internare!“. Ma allo stesso tempo lancia un appello: “Se ci fosse un progetto che coinvolgesse un pool di imprenditori e se questo progetto, oltre a salvare la società, fosse utile a svegliare dal sonno questa città, allora sì, mi attiverei domani mattina“. Nello studio del commendator Mezzaroma volano gli aeroplanini del nipotino, due anni, stesso nome del nonno: “Può fare un’intervista a tre generazioni“, ci dice l’ex socio di Franco Sensi. La libreria è invasa da pupazzi di Walt Disney. Hanno tutto l’aspetto dei sogni. Quelli da bambino e quelli “da grande“. Forse in mezzo c’è anche la società di Trigoria. “I pupazzi li ho messi insieme nel tempo, per regalarli un giorno a mio nipote. Ora sto facendo fare una bacheca per il piccolo Pietro. In quella bacheca c’è il lato bambino del nonno. Non ho avuto un’infanzia normale. Ho iniziato a lavorare a nove anni. Quando vennero gli americani a Roma, smisi di andare a scuola e andai a lavorare in uno stabilimento di falegnameria. Prendevo cinque lire a settimana. Le portavo a casa perchè servivano ai miei genitori“.
Dalle cinque lire al successo. Qual è stato il suo segreto?
La mia fortuna è stata quella di aver appreso il mestiere del falegname da mio padre. A diciotto anni ho iniziato a fare gli infissi per i cantieri, sfruttando il boom delle costruzioni. A quel punto mi sono messo per conto mio: a diciannove anni avevo già un’azienda con undici operai. Oggi, ripensando alla strada che ho fatto, non ho dubbi: la fame è stata il mio segreto“.
Interviene Massimo: “Una fame che ha trasmesso anche a noi. Eravamo gli unici tra i cugini, a non vergognarci di provenire da una famiglia povera. La nostra generazione manca di quello stimolo e di quei valori che spesso nascono nella sofferenza: l’estremo sacrificio, noi, non lo conosciamo. Quello fu il segreto del successo degli italiani nel dopoguerra“.
Una famiglia di tifosi, la vostra. Chi è il più agguerrito?
Massimo: “L’esperienza alla presidenza della Roma un po’ ha incrinato il nostro spirito di tifosi. Quando vedi il calcio da dentro, poi tutto cambia. Comunque il vero tifoso sono sempre stato io. Papà, in realtà, è più tifoso della città. Ricordo i giorni in cui casa nostra era assediata dalla gente che ci chiedeva di acquistare la Roma. Papà non seppe dire di no“.
Pietro: “In quel periodo mi arrabbiai con diversi costruttori romani. Gli dicevo ‘Ma come, vi siete arricchiti nella Capitale e adesso ve ne state con le mani in mano?’. In ogni caso, decisi di affrontare anche da solo quell’avventura“.
L’idea quindi non nacque da Franco Sensi?
Pietro: “La verità è che io mi ero già impegnato a rilevare la società. Quando arrestarono Ciarrapico, la Banca di Roma era esposta per novanta miliardi: linea di credito a breve, quindi senza garanzia. Una sera mi trovavo a cena in un ristorante e mi stavo lamentando con i proprietari, uno laziale, uno romanista. Avevo il timore che si trattasse di un bagno di sangue. Stavo comprando la Roma, perchè ormai non campavo più: sotto casa si erano accampate donne, bambini, ragazzi. Mi dicevano: ‘Commendatore, ci salvi’. Mi ero impegnato, ma avevo paura che stessi prendendo una fregatura. Uno dei proprietari del ristorante mi chiese se ero interessato ad avere un socio. E mi fece il nome di Franco Sensi. Lo chiamai la sera stessa, erano le dieci e mezza di sera. E la mattina dopo venne alla Banca di Roma per sottoscrivere il 50% del capitale. Si trattava dell’87% che deteneva Ciarrapico. Io in realtà avevo già un 10% che avevo rilevato da Viola, in un momento in cui la società era in difficoltà. C’è da dire che Franco Sensi già stava pensando alla Roma. Il papà fu uno dei fondatori. Non ci pensò due volte“.
Due anni fa pensaste di riprendervi la Roma: potete confermare?
Risponde Massimo: “E’ vero. Franco (Sensi ndr) si era ammalato e la Roma già versava in cattive acque. Valutammo la situazione, senza parlare con nessuno. Non ci incontrammo con Rosella Sensi, nè con Unicredit. Facemmo un sondaggio per capire come stavano le cose. Purtroppo dai segnali che ci arrivavano ci rendemmo conto della disparità di valutazione. E non andammo più avanti“.
Cosa fu a muovervi? L’affare? La passione?
Pietro: “L’apprensione per la Roma. Un romano che non ama la sua città si deve suicidare! A muoverci fu lo spirito di servizio verso la Capitale“.
Ed oggi, lo stesso spirito non vi muove?
Di nuovo Massimo: “Noi abbiamo fatto un altro tipo di proposta. Se la Roma, per stabilizzare una politica di mantenimento della squadra ad alti livelli, ha bisogno di 20-30 milioni di euro, perchè non raccogliere tutti i costruttori romani, comprese le associazioni di categoria, e studiare un progetto per aiutare la società? Magari un progetto mirato alla campagna acquisti. Il concetto è partire dalle necessità di flussi di cassa della Roma. La proprietà rimarrebbe alla famiglia Sensi. Io l’idea l’ho lanciata, al momento non l’ha raccolta nessuno. Un peccato, perchè i costruttori guadagnerebbero un po’ di reputazione, salvando questa squadra. Non si tratterebbe di una speculazione: saldo zero, utile di immagine“.
Massimo non si sbilancia. Pietro un po’ di più. Ne approfittiamo in un momento in cui rimaniamo soli con il commendatore: a parte lo spirito di sacrificio per la città, la Roma con il nuovo stadio non potrebbe rappresentare un affare?
Penso di sì. Con lo stadio e una buona consistenza di cubatura, l’affare ci sarebbe“.
Quindi se dovesse passare il progetto, un pensiero lo farebbe?
Sì, un pensiero lo farei“.
La vostra famiglia può ancora esercitare il diritto di prelazione sull’A.S. Roma?
No, quello è scaduto nel 2004“.
Suo figlio sarebbe contento di tornare al comando della Roma?
Lui non lo ammette, ma sarebbe molto contento. Ripensando ai tempi della mia presidenza, se Franco non avesse avuto quel carattere, la Roma si poteva portare avanti insieme“.
Perchè vi separaste?
Semplice: ad un certo punto si era trasformata in una corsa al potere. Franco aveva un caratterino… Però è rimasto un amico. La sua morte mi ha molto addolorato. Lui si è dissanguato per la Roma: il credito di riconoscenza che la città gli deve, dovrebbe essere esteso alla figlia“.
Nel frattempo Massimo è rientrato nello studio.
Lei ha sofferto quando suo padre vendette la vostra quota?
Entrai nella Roma da tifoso e uscii da dirigente: l’immagine che trassi del calcio mi rattristò molto. Per cui non ho sofferto più di tanto. Era un mondo malsano: non la Roma, ma il calcio in generale. Io poi lavoravo nel settore giovanile: vedevo delle schifezze che non si possono raccontare“.
Però vedeva crescere Francesco Totti.
Massimo: “Francesco aveva appena vinto il campionato allievi nazionali. Quella era una squadra molto forte. Onestamente ci chiedevamo se lui fosse un fenomeno o se il vero fenomeno fosse l’allenatore, Sella. La discriminante fu Mazzone, che credette nel ragazzo. E prima di lui Conti. A proposito, voglio attribuirmi un merito: fui io l’artefice della carriera da dirigente di Bruno. Gli dissi che doveva rappresentare la nostra immagine. Tornando a Totti, quello che impressionò gli addetti ai lavori fu l’alchimia tra struttura fisica e piedi sopraffini. Mazzone lo fece diventare un uomo: gli dava certi calci nel sedere! Carlo era una grande persona, mio padre scelse di comune accordo con Franco di chiamarlo sulla panchina della Roma. Quando gli telefonò, rispose: ‘vengo a piedi da Cagliari’. Qualche tempo fa gli proposi di diventare presidente onorario della Roma Volley“.
A proposito della pallavolo: in un momento delicato per questo sport, lei ha invitato i presidenti a mettere da parte personalismi, beghe e interessi privati.
La pallavolo è ancora uno sport pulito. E vorrei che rimanesse così. La differenza tra questi due sport la noti quando vai a cena con gli atleti: altre facce, altra pulizia. Io ho un ragazzo nel mio vivaio, con cui ho fatto una scommessa: abbiamo creato un format di piano di studi per atleti all’Università Luiss. L’obiettivo era quello di far combaciare l’attività agonistica con la laurea: in un anno ha fatto sei esami con la media del ventisette in Economia e Commercio. Nel frattempo ha accumulato minutaggio con la squadra. L’anno prossimo potrebbe giocare da studente in A1. Nel calcio sono cose inimmaginabili“.
Ma se papà Pietro le regalasse la Roma, magari per Natale?
Lo farei internare! A parte gli scherzi, di fronte ad un progetto capace di svegliare questa città, mi attiverei domani mattina. Se la Roma servisse a rompere il sistema di questa città, che ci tiene ancorati al fondo, ripeto, io questa operazione la farei domani mattina. Sto parlando di un pool di imprenditori, un pezzo per uno: dimostriamo che siamo capaci di andare d’accordo nella speranza di fare qualcosa di grande. Nell’indole dei romani c’è un po’ di menefreghismo, ma è anche vero che sotto la cenere c’è uno spirito diverso: forse è il momento di farlo uscire fuori“.
A parte diventare presidente della Roma (la battuta non viene raccolta), cosa vorrebbe Pietro per suo figlio e suo nipote? E cosa vorrebbe Massimo per il piccolo Pietro?
Pietro: “A mio figlio ho già insegnato molto. A mio nipote auguro di saper interpretare quello che sto cercando di insegnargli. Quando è nato gli ho regalato un mattone, accompagnato da un biglietto: ‘Che sia il primo per costruire la tua vita’. E credetemi, non c’era nulla di materiale nel mio gesto. Non ho voluto che i miei figli crescessero ai Parioli, dove ora risiediamo: la ricchezza può giocare un brutto scherzo. Spero che il piccolo Pietro si ricordi delle parole del nonno. E soprattutto che aiuti sempre i più bisognosi“.
Massimo: “Vorrei consentire a mio figlio di girare il mondo e guardare in faccia le persone con serenità ed onestà. Quando Blair fu eletto primo ministro inglese per la prima volta, scrisse su una colonna del Sunday Times il decalogo delle cose che si impegnava a fare. L’ultima frase mi rimarrà impressa tutta la vita: ‘mi impegno ogni volta che convoco un consiglio dei ministri a lasciare sempre due sedie vuote, una per i nostri figli, una per i nostri nipoti’“. Chissà se il nipote di Pietro Mezzaroma avrà la possibilità, un giorno, di lasciare due sedie libere nel cda della Roma.
Simone Di Segni


Commenti (7)

  1. Cosa cosa cosa??? Ma siete sicuri di quello che dite? Io ho sentito fare tutti i nomi, da Angelini ai fantomatici arabi, ma erano tutte sciocchezze buone a far vendere i giornali!

    Roma è una piazza strana…e in città è pieno di boccaloni. Non vorrei che questa fosse l’ennesima presa in giro…

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